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Il 18 luglio il Comitato Cedaw dell’Onu che monitora l’applicazione della Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, ha accolto il ricorso dell’associazione Differenza Donna e ha riconosciuto che l’Italia ha violato gli articoli 2 (b)-(d) e (f), 3, 5 e 15 della CEDAW nei confronti di una donna che, già vittima di violenza domestica, ha subito uno stupro da un agente delle forze dell’ordine incaricato delle attività di indagini in corso sul maltrattamento subito dall’ex marito. L’agente delle forze dell’ordine era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione, poi assolto in secondo grado. La Corte di cassazione ha poi confermato l’assoluzione.
Gli stereotipi sessisti prosperano nei tribunali italiani
Lo Stato italiano ha difeso le politiche nazionali adottate negli ultimi anni in materia di prevenzione della violenza di genere nonché l’operato dell’autorità giudiziaria, ma il Comitato CEDAW ha ritenuto che il trattamento riservato alla donna prima dalla corte d’appello e poi dalla Corte di Cassazione non ha garantito “l’uguaglianza sostanziale della donna vittima di violenza di genere”.
Secondo il Comitato CEDAW Il trattamento riservato alla donna dall’autorità giudiziaria nasconde “una chiara mancanza di comprensione dei costrutti di genere della violenza contro le donne, del concetto di controllo coercitivo, delle implicazioni e delle complessità dell’abuso di autorità, compreso l’uso e l’abuso di fiducia e l’impatto dell’esposizione ai traumi successivi”.
Inoltre, il Comitato sottolinea che le sentenze di assoluzione nel caso di specie si sono basate su “percezioni distorte e su miti e convinzioni preconcette, piuttosto che su fatti rilevanti, che hanno indotto la Corte Regionale e la Corte Suprema di Cassazione a interpretare o ad applicare in modo errato le leggi, minando così l’imparzialità e l’integrità del sistema giudiziario e producendo un errore giudiziario e la rivittimizzazione della donna”.
In accoglimento delle argomentazioni, il Comitato CEDAW ha ricondotto le violazioni al fatto che gli stereotipi sessisti prosperano in sede giudiziaria in ragione di una legislazione, come quella italiana, che non identifica chiaramente il consenso come elemento centrale e determinante della violenza sessuale.
I pregiudizi e gli stereotipi sessisti hanno lasciato spazio a interpretazioni contrastanti e dannose, basate su norme e preconcetti culturali che hanno negato alla donna un accesso paritario alla giustizia, non hanno assicurato l’adeguata protezione, ma l’hanno ripetutamente sottoposta a discriminazioni e ri-traumatizzazioni.
Riparazione del danno morale e sociale
Il Comitato ha raccomandato nel caso specifico l’integrale riparazione del danno morale e sociale a lei cagionato a causa dell’omessa riparazione e protezione anche in quanto vittima di violenza domestica.
Formazione adeguata per giudici, avvocati e personale addetto ad applicare la legge
È stato raccomandato inoltre di fornire programmi di formazione specifici per la magistratura, per l’avvocatura e le forze dell’ordine, il personale medico e tutte le altre parti interessate, con la finalità di far comprendere le dimensioni legali, culturali e sociali della violenza contro le donne e della discriminazione di genere.
Il Comitato raccomanda di sviluppare, implementare e monitorare strategie per eliminare gli stereotipi di genere nei casi di violenza di genere, che approfondiscano i danni prodotti dagli stereotipi e pregiudizi mediante ricerche basate sull’evidenza e l’identificazione delle migliori pratiche.
Predisporre un sistema di monitoraggio
Un’ulteriore raccomandazione è quella di predisporre un sistema di monitoraggio e analisi delle sentenze delle tendenze del ragionamento giudiziario, predisponendo anche meccanismi di denuncia e controllo dei casi di stereotipizzazione giudiziaria.
La centralità del consenso
Infine, a distanza di ventisei anni dalla riforma dei reati sessuali, l’Italia riceve la raccomandazione di modificare il reato di violenza sessuale eliminando ogni riferimento a condotte di violenza o minaccia e di garantire la centralità del consenso della vittima “come elemento determinante” del delitto. L’onere della prova deve essere posto a carico dell’imputato che dovrà dimostrare “la convinzione fondata di un consenso affermativo da parte della donna”.
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