La Federal Reserve ha annunciato l’aumento dei tassi di interesse dello 0,75% per contenere l’inflazione. Qualche giorno fa, anche la Bce ha comunicato la fine della politica monetaria basata sul Quantitative easing e l’aumento dei tassi dello 0,25% a partire dal 1 luglio.
Le cause dell’inflazione
Negli ultimi 15 anni, oltre ad avere un’economica che cresceva poco, abbiamo avuto anche una bassa inflazione, ovvero un aumento dei prezzi molto contenuto.
In questi due anni lo scenario è cambiato: con la fine dei lockdown della pandemia da Covid-19, l’economia è nuovamente ripartita con una domanda di materie prime, beni e servizi molto elevata, spesso superiore all’offerta di mercato. Questo squilibrio ha determinato l’aumento dell’inflazione. Inoltre, le tensioni geopolitiche come la guerra in Ucraina hanno ulteriormente acuito il fenomeno.
Negli Stati Uniti l’inflazione ha superato ampiamente l’8% a marzo, mentre in Europa si è attestata sull’8 %, un livello che non si vedeva dagli anni ’90 del secolo scorso.
Il legame tra inflazione e tassi di interesse
Storicamente le banche centrali utilizzano la leva dei tassi di interesse per rimettere sotto controllo l’inflazione.
Aumentando i tassi di interesse diventa meno conveniente investire, c’è meno liquidità in circolazione, meno consumi, meno occupazione, l’economia rallenta, scende l’inflazione, ma c’è comunque un rischio di recessione. Per tale motivo le banche centrali devono dosare con molta attenzione le manovre di aumento dei tassi, in modo da ridurre l’inflazione, senza determinare il calo del Pil.
Un aumento dei tassi di interesse comporta anche un maggior costo del debito pubblico. Questo significa che un paese per finanziare il proprio deficit, deve offrire interessi più alti di prima, per far sì che gli investitori continuino a comprare i titoli.